Nonostante i numerosi e
ripetuti richiami del Capo dello Stato, impegnato sino all’ultimo ad evitare
una nuova tornata elettorale all’insegna del c.d. porcellum, il nuovo Parlamento sarà eletto con
la legge Calderoli del 2005. I parlamentari uscenti, a dispetto di tanti
proclami, non hanno saputo (o voluto) elaborare ed approvare quelle riforme
istituzionali o soltanto elettorali necessarie ed urgenti per ammodernare il
nostro sistema politico e per assicurare al Paese governabilità ed efficienza.
Questo articolo si
propone di esaminare, in breve e senza la pretesa di essere esaustivo, il
sistema politico-istituzionale italiano mettendolo a confronto, in un’ottica de iure condendo, con i sistemi
parlamentari generalmente ritenuti come modelli di riferimento, quello inglese
e quello tedesco.
Lo scopo è evidenziare
l’importanza del rapporto tra sistema istituzionale e sistema dei partiti –
considerati, aimè, a volte come sinonimi, altre come variabili tra loro
indipendenti – nell’individuazione di una strada percorribile ed utile alla
razionalizzazione del nostro modello parlamentare.
Premessa. Il sistema
di governo parlamentare dipende principalmente da due presupposti: il sistema
elettorale e il sistema partitico che ne deriva.
I sistemi elettorali
traducono i voti in seggi, determinando in tal modo la natura del sistema
partitico. Pertanto, la scelta del sistema elettorale dovrebbe essere guidata
dall’intento di realizzare un sistema di partiti funzionale e funzionante.
Il fine generalmente
condiviso e perseguito è costruire un sistema che produca stabilità e
governabilità, cioè governi che durino nel tempo, ma che siano soprattutto
efficienti. La sola stabilità non basta: un governo può essere stabile, cioè
durare un’intera legislatura, ma allo stesso tempo non efficiente, se, per
esempio, formato da più partiti tra loro disomogenei che rallentino o
addirittura impediscano il processo decisionale.
Modello parlamentare italiano. Imperniati sul bicameralismo perfetto, sul proporzionale
puro e sulla presenza di un partito a vocazione non governativa, il sistema
politico della Prima Repubblica ed il suo modello parlamentare sono stati
caratterizzati da una elevata instabilità governativa, da una notevole
stabilità politica (coalizioni di maggioranza formate dagli stessi cinque
partiti) e da una considerevole continuità delle politiche di governo, dovuta
soprattutto all’assenza di alternanza al governo del Paese. Considerate tali
condizioni politiche, può dirsi che dal punto di vista istituzionale il modello
parlamentare di governo ha funzionato in maniera soddisfacente e secondo le
aspettative. Il crollo della Prima repubblica è da attribuire più all’esaurirsi
della capacità di rappresentanza e di governo dei singoli partiti e del sistema
partitico nel suo complesso che all’imperfezione del modello parlamentare
adottato.
Il passaggio alla Seconda
repubblica ha portato conseguenze soprattutto nel sistema partitico e nei
modelli elettorali adottati, meno nell’architettura costituzionale, rimasta
sostanzialmente la stessa.
La mutata situazione
internazionale, la caduta del muro di Berlino ed il conseguente venir meno
della necessità di mantenere l’unità politica dei cattolici in funzione
anticomunista, ha reso possibile anche in Italia l’instaurazione di un sistema
di alternanza tra governi di centro-destra e governi di centrosinistra. Ciò
nonostante, tutto è stato complicato dall’adozione di sistemi elettorali che,
generando spesso instabilità e quasi sempre ingovernabilità ed immobilismo, non
hanno certamente aiutato il consolidamento del neonato sistema bipolare.
Il modello parlamentare inglese: il Premierato. Prima di esaminare l’esempio inglese e quello tedesco, va
chiarito un punto: sino ad oggi, fatta eccezione per l’esperienza israeliana
(già conclusa), nessun premierato o cancellierato poggia sull’elezione diretta
del Capo del governo.
In Inghilterra, il cui
sistema è caratterizzato da semplicità, limpidità e trasparenza, il premier non
scaturisce da un’elezione, né diretta, né “indiretta” da parte del popolo. Il
premierato inglese funziona perché il sistema è bipartitico ed i governi
monopartitici. Sono queste le premesse dalle quali discende che il leader del
partito che vince le elezioni diventa automaticamente primo ministro.
Essendo un sistema
parlamentare, anche in Inghilterra, a differenza di quel che pensano in molti,
il Primo ministro può essere sostituito in corso d’opera dal Parlamento ed in
particolare dal gruppo parlamentare del suo partito (come avvenuto con Eden,
Tatcher, Heath, MacMillan, Callaghan, Blair).
Quello che conta per
capire davvero quali sono e come funzionano i poteri del Primo ministro inglese
è il sistema partitico, cioè il bipartitismo. È la persistenza del bipartitismo
il segreto della forma inglese di governo. Per questo non si comprende come si
possa, tenendo conto di tutte le principali condizioni costitutive di questo
modello, pensare di imitare, proporre e congegnare un premierato all’inglese
anche in Italia.
Cancellierato
tedesco. Discorso analogo vale per il sistema
tedesco, dove il Capo del governo è eletto dal Bundestag, e dove la Costituzione ne ha previsto la sostituibilità
mediante un voto di sfiducia costruttivo. Se il cancelliere tedesco è
prevedibile quanto il premier inglese, è in ragione del sistema partitico
esistente. Caratterizzato da due partiti maggiori intorno al 40% dei consensi e
due partiti minori intorno al 10%, la guida del governo spetta, in virtù del
principio della leadership, al capo del partito dominante della coalizione
vincente.
Pertanto, l’autorità politico-istituzionale del
Cancellierato tedesco deriva non solo e non tanto dal sistema istituzionale (che
pure fornisce un apporto di notevole rilievo), quanto più concretamente dal
sistema elettorale. È la rappresentanza proporzionale con due clausole di
sbarramento per l’accesso al Parlamento che ha impedito la frammentazione dei
partiti, storicamente radicata nell’esperienza elettorale tedesca, ed ha
contribuito in maniera decisiva a dare efficienza al sistema.
In entrambi i casi, nonostante
l’autorevolezza ottenuta dall’investitura maggioritaria in sede parlamentare,
il Primo ministro non è sottratto da eventuali tentativi di sostituzione. Anzi,
nel caso del modello di governo tedesco, è stata addirittura prevista la
possibilità di sostituzione del Cancelliere e della maggioranza di governo,
eventualità rigorosamente regolamentata con il meccanismo del voto di sfiducia
costruttivo.
In tale contesto, lo
scioglimento anticipato del Parlamento è considerata l’extrema ratio.
Appare chiaro, quindi,
che è l’interazione fra gli elementi istituzionali e il sistema dei partiti che
consente e facilita il conseguimento della necessaria stabilità, dell’efficienza
decisionale e dell’eventuale cambio di governo in un equilibrato
contemperamento di flessibilità e rigidità.
Il dibattito italiano sulla riforma. Nonostante siano questi i modelli di riferimento, il
dibattito italiano continua ad essere incentrato sull’elezione diretta o quasi
diretta del premier, sul rafforzamento dei suoi poteri, sull’introduzione di meccanismi
anti-ribaltone e di immediato ritorno al voto in caso di mutamento delle
maggioranze.
L’errore generalmente
presente nelle discussioni che in Italia accompagnano il tema della riforma del
sistema politico è proprio quello di concentrarsi sulle modalità di formazione
e funzionamento dell’esecutivo senza tener conto del sistema dei partiti e del
sistema elettorale esistente.
Quello che sembra
sfuggire ad alcuni dei nostri politici è che il rafforzamento dei poteri del
Primo ministro costituisce l’esito di un processo correttamente congegnato e
attuato e non l’elemento da cui partire per la costruzione di un governo
stabile ed efficiente.
In merito all’elezione
diretta, va detto che l’unica, peraltro già conclusa, esperienza di scelta
popolare diretta del Primo ministro, accompagnata dal meccanismo del simul stabunt simul cadent che coinvolge e travolge il Parlamento
nella crisi politica e funzionale del Primo ministro, è quella israeliana. Ma
in nessuna delle tre occasioni nelle quali è stata attuata, l’elezione diretta
popolare del Primo ministro ha garantito la stabilità del Parlamento, né ha
prodotto e migliorato l’efficienza decisionale.
La rigidità
istituzionale, infatti, rischia di far oscillare il sistema fra una crisi
sistemica ed una paralisi altrettanto sistemica. Invece, la flessibilità, oltre
ad essere costitutiva dei modelli parlamentari di governo, è, a determinate
condizioni, un meccanismo riequilibratore che mantiene in funzione il sistema
politico. Ricercare questo meccanismo riequilibratore sempre e comunque in
elezioni ripetute e frequenti comporta il serio rischio di logoramento del
sistema politico e della sua democrazia, se non altro perché sotto elezione i
governi, in clima di campagna elettorale, tendono a rinviare tutte le decisioni
impopolari, anche se necessarie ed urgenti.
Dall’altro lato l’accoppiata elezione diretta e deterrenza
elettorale ferisce al cuore il meccanismo che costituisce la ragion d’essere e
il pregio dei sistemi parlamentari: quello di essere sistemi flessibili che si
autoriparano, che rimediano ai loro incidenti di percorso.
La priorità rimane,
pertanto, operare sul sistema elettorale e, di conseguenza, sul sistema dei
partiti. Su quest’ultima considerazione occorre chiarire alcuni punti:
innanzitutto, non esiste un sistema elettorale a prescindere migliore di
altri; esistono, questo sì, sistemi elettorali che meglio si adattano e che
sono più congeniali al sistema politico nel quale vanno ad inserirsi.
In secondo luogo,
contrariamente a quanto pensavano (e pensano) i nostri referendari del ’94, un
sistema bipolare non richiede necessariamente un sistema maggioritario a turno
unico.
Quasi tutti i Paesi
dell’Europa Occidentale (fatta eccezione per Inghilterra e Francia) sono
proporzionalisti e bipolari. Inoltre, come abbiamo visto in Italia con il Mattarellum, un sistema
uninominale a un turno innestato su un preesistente pluripartitismo non riduce ma moltiplica i partiti perché si fonda sul ricatto di quelli più piccoli sui
più grandi, impedendo la formazione di governi efficienti.
L’esempio del Mattarellum non ha tuttavia impedito ai
partiti italiani, troppo spesso guidati unicamente delle proprie convenienze
elettorali, di sostituire l’uninominale con un sistema, il porcellum, che, oltre ad essere ugualmente inefficace, ha altresì
generato molte storture e altrettante inefficienze (parlamentari nominati,
pluralità di premi di maggioranza al Senato che garantiscono la perfetta parità
o quasi tra le coalizioni, premio di maggioranza alla Camera senza previsione
di soglie minime, ecc. ecc.).
Prospettive di riforma. Il problema italiano
continua ad essere, dunque, la presenza di un modello elettorale imperfetto ed
inadeguato. Stante la persistente frammentarietà del sistema politico, sarebbe
meglio un sistema maggioritario a doppio turno (Francia) o una proporzionale
ben sbarrata o fondata su circoscrizioni molto piccole (Germania o Spagna) che
il ritorno al Mattarellum.
Chi scrive ritiene più
adatto alla situazione italiana l’introduzione di un modello simile a quello
francese. Si garantirebbe in tal modo la riduzione del numero dei partiti in
Parlamento e la scelta da parte dei cittadini dei propri rappresentanti.
Fatto questo, invece di
perdersi in elaborazione di riforme volte a mutare del tutto il nostro sistema
istituzionale ed introdurre forme di governo per le quali non siamo, forse,
ancora maturi (parlo del Semipresidenzialismo o addirittura del
Presidenzialismo), si potrebbe procedere a razionalizzare il nostro sistema
parlamentare attraverso, solo per fare alcuni esempi, la riduzione del numero
dei parlamentari, l’abbandono del bicameralismo perfetto e la realizzazione del
Senato delle Regioni o delle autonomie.
Nonostante negli ultimi
vent’anni in materia di riforme delle istituzioni l’alternativa è stata tra il
far male o il far nulla, continuiamo a nutrire la speranza che i nostri
politici ed in particolare il prossimo Parlamento possano dare risposte anche
su questi temi, per il bene del Paese e della nostra democrazia.
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